Gemma Calabresi Milite sorride serena quando entra nella sala dove è stata accolta lo scorso 5 giugno in Viscontea, in occasione della festa delle famiglie. È una signora piuttosto minuta ma riempie la stanza, un po’ perché tutti l’aspettavamo trepidanti, un po’ perché dalla sua figura traspare una sicurezza di sé autentica e profonda, evidentemente maturata con il tempo.
La sua è una di quelle storie quasi epiche, se la si osserva dalla distanza dei media; storie di grandi anime coraggiose, di reazioni sovrumane e sante al dolore della vita, storie tanto distanti da risultare inarrivabili. Gemma Calabresi ha perdonato gli assassini di suo marito.
Luigi Calabresi, che per lei era e rimane “Gigi”, era, all’inizio di quelli che passeranno infelicemente alla storia come “anni di piombo”, un giovane e brillante commissario di polizia. Accusato dell’omicidio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, Calabresi fu vittima, nonostante la sua innocenza, di una pesantissima campagna diffamatoria che pilotò l’opinione pubblica contro di lui e condusse al suo omicidio, il 17 maggio 1972, di fronte alla sua abitazione in via Cherubini, a Milano.
È qui che Gemma fa iniziare la sua storia, da quel momento che ha raccontato milioni di volte, ma che ugualmente, quando si è rivolta a noi, l’ha commossa fino alle lacrime. “Anche dopo cinquant’anni…”, ha detto sorridendo, mentre si asciugava le guance. Per testimoniare deve rivivere davanti a noi quegli attimi così decisivi: la mattina di routine, una cravatta bianca “simbolo di purezza”, le ultime parole rivoltele dal marito, la terribile notizia portata da una sconosciuta, il dolore incommensurabile… sarebbe riduttivo riassumere qui, di nostro pugno, una storia così personale. Vale la pena ascoltarla direttamente da lei o con la mediazione della carta stampata del suo libro uscito da poco per Mondadori, ‘La crepa e la luce’.
Proprio quel giorno, ci racconta, insieme al più grande dolore della sua vita ha ricevuto uno dei doni più belli. Lei la chiama “l’esperienza del divano”, un momento catartico ed epifanico in cui ha sentito “una assurda pace e una grande forza”. “Quella mattina”, ci rivela con emozione, “ho ricevuto da Dio il dono della Fede.”. Una Fede che da quel momento ha pervaso ogni aspetto della sua esistenza, sorreggendola e guidandola nel suo cammino di vita e, soprattutto, nel suo cammino di perdono.
Questo il grande tema che Gemma Calabresi ha voluto condividere con noi, quello del perdono, che con il suo esempio di vita vissuta ha calato nel concreto, superando quello scarto con la normalità che una vita eroica raccontata dall’esterno tende ad avere.
“Il perdono non si dà con la ragione, ma solo con il cuore. È un dono”. Non è razionale, non è una decisione che si può prendere facendo una lista di pro e di contro: il perdono è piuttosto un cammino che porta all’amore, che porta a vedere l’altro come una persona, prescindendo da quelle azioni che sembravano poterlo definire. E infatti, in tribunale, osservando i visi di quegli uomini che le avevano strappato la sua vita, Gemma si chiedeva che diritto avesse di relegare per sempre queste persone all’atto peggiore che avevano compiuto; persone che proteggevano con amore sincero i loro cari, e in altri modi, in altre situazioni, erano probabilmente stati buoni amici, buoni mariti, buoni padri.
Ai bambini cui insegnava religione a scuola, Gemma diceva che nella vita di tutti ci sono il bene e il male e che non è che “muoiono solo i buoni”, come si chiedeva con sospetto un alunno, ma che quando qualcuno non c’è più “bisogna ricordare tutto il bene che ha fatto”. E in questo cambio di prospettiva, in tribunale, quelle parole erano diventate una verità concreta.
È così che Gemma ha cominciato a vedere tutto sotto un’altra luce, ha cominciato a chiamare “responsabili” quelli che prima chiamava “assassini” e ha continuato a camminare sulla via del perdono. Via che, lei tiene sempre a specificarlo, è anche e soprattutto una strada illuminata dalla Fede, perché percorsa in primis da Cristo. Sulla croce, infatti, con lo sguardo al cielo chiede al Padre di perdonare al suo posto chi lo stava uccidendo, perché come uomo non ha la forza di farlo da solo: se infatti Cristo, in quanto Dio, conosce la gioia profonda della Misericordia, come uomo ha voluto conoscere anche la nostra stessa e dura strada del perdono, con il dolore tutto umano di non poterlo dare.
Quando ci parla di Dio e del suo profondo legame con Lui, Gemma è consapevole della crisi religiosa del nostro tempo, consapevole che le sue parole siano in controtendenza rispetto ad una visione pessimistica ed individualista della vita che di Dio fa volentieri a meno; ma la seria sicurezza che, pur in questa consapevolezza, la fa parlare con trasporto della sua Fede è una ventata di aria fresca, una speranza concreta che, come dice lei, tutti possono “sentire la presenza di Dio” e che, “anche dopo un dolore lancinante, si può amare ancora la vita, si può credere ancora negli altri, si può essere ancora felici”.
Testimonianza a cura di Chiara Colella Albino
Gemma Calabresi - Festa delle Famiglie Viscontea
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Redazione
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